Chi siamo

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L’idea di Gira Ineza ha avuto origine dal desiderio di un piccolo gruppo di persone con una comune sensibilità nel “farsi prossimo” presso i fratelli più deboli e indigenti del Rwanda.
Al fine di mostrare il vero volto e il vero cuore di Gira Ineza, vogliamo raccontarvi le spinte interiori e gli ideali dei suoi ideatori tra cui in particolare Jean Paul Kabandana e Maria Antonietta Scaramella.

Jean Paul è un rwandese che da 27 anni vive in Italia. Venuto per motivi di studio Jean Paul ha avuto sempre il desiderio di ritornare in Rwanda per collaborare alla promozione umana e sociale del suo paese, ma le forti difficoltà economiche e sociali del paese non lo hanno permesso.
Questo grande desiderio di dare il proprio contributo al suo Paese affonda le radici nell’infanzia e nella prima giovinezza di Jean Paul, quando ha cominciato a comprendere la fatica del vivere senza nulla (ad esempio per raggiungere la scuola elementare per ben 6 anni ha dovuto percorrere a piedi, ovviamente senza scarpe, dagli 8 ai 10 km al giorno; oppure in caso di malattia sapeva di poter contare solo sulla Provvidenza di una guarigione senza alcun intervento sanitario).
In questa situazione di forte disagio Jean Paul prendeva sempre più consapevolezza della sofferenza personale e degli altri che vivevano lo stesso stato di indigenza, e gli cresceva la voglia di impegnarsi a migliorare questa situazione per sé e per il suo Paese.
Il sogno di tornare fisicamente in Rwanda per il momento non si è ancora realizzato, ma questa forte nostalgia ha portato Jen Paul insieme a Maria Antonietta a costituire l’associazione Gira Ineza.

Maria Antonietta, è un’italiana che dal 1989 ha maturato in sé l’intento di vivere una missionarietà in Rwanda. Tutto è iniziato con l’invito da parte di un sacerdote rwandese di andare a visitare il suo paese, e dopo quella prima esperienza ne sono seguite altre due nel 1990 e nel 2015.
Per esprimere meglio le sue emozioni, le profonde riflessioni di quei momenti e l’empatia nata durante quelle esperienze, offriamo alcuni stralci del “diario” che Maria Antonietta ha scritto:

“Il giorno 23 dicembre 1989, arrivata all’aeroporto della capitale rwandese ha inizio il viaggio verso Butare-Gisagara lasciando alle spalle Kigali, una città in continua espansione. Presto le “mille colline” ruandesi si aprono davanti a me con distese immense di banani, piante di caffè e mais…
Sparse qua e là sono le abitazioni, tutte basse, per lo più costituite di terra e mattoni rudimentali, i tetti sono di tegole o lamiere. Contemplo un panorama tante volte immaginato e che sembra proprio corrispondere al quadro fantastico delineato nella mente. Man mano che la strada si allontana della capitale, si scorgono tantissime capanne di paglia.
Lungo i bordi della via parecchi bambini male vestiti (qui non si parla delle scarpe) camminano, corrono, giocano ed aiutano nel trasporto di materiali vari e talvolta molto pesanti caricati sulla testa. Tante altre sono le esperienze singolari che vivo nei giorni rwandesi tutte bellissime ed indimenticabili, ma due sono veramente incisive.

 

Al centro di sanità.

La prima esperienza è stata effettuata nel centro di sanità di Gisagara, nei pressi della parrocchia. Un complesso di più padiglioni: dalla maternità al centro nutrizionale, dal reparto di medicina generale al centro per i malati di T.B.C..
Davanti al padiglione di accoglienza o pronto soccorso, giacciono a terra delle lettighe rudimentali su cui sono stesi i malati giunti lì con quelle ambulanze mosse soltanto dai veloci portatori.
Lungo la parete di un’altra bassa costruzione si ota la fila di gente in attesa: donne,uomini, bambini poveramente vestiti con i volti pazienti che attendono il loro turno per ritirare le medicine prescritte. Nei vari reparti gli infermi giacciono stesi su letti molto poveri con coperte malconce e spesso privi di lenzuola.
L’infermiere che fa lo stesso tempo il medico passa  due volte al giorno e provvede prettamente alla parte curativa, per il resto tutto è demandato alla famiglia che provvede alla pulizia del malato, porta il cibo che mangeranno tutti insieme...prendendolo dall’unico recipiente. Il paziente non è dunque abbandonato e riceve quelle cure affettive che nessun altro potrebbe dargli come i familiari, ma si deve pensare che qui la gente è priva di quelle conoscenze igieniche necessarie per stare accanto ad un infermo, che i mezzi di primaria importanza - anche le medicine- scarseggiano se non addirittura sono assenti.

 

Visita ai due moribondi.

La seconda esperienza che ha inciso un profondo ricordo dentro il mio animo è andare con P. Giovani Bosco da due moribondi per amministrare loro il sacramento dell’unzione degli infermi.
È il pomeriggio del 31 dicembre e P. Giovanni Bosco viene chiamato da un responsabile di una delle lontane zone della parrocchia  a correre presso due malati in fin di vita.
Dunque partiamo e dopo un percorso in macchina nei sentieri tra gli alberi, si prosegue a piedi in fila indiana nei viottoli che si fanno sempre più piccoli e stretti tra i banani. Si giunge quindi ad una capanna: una vera capanna di fango e paglia. Padre Giovani Bosco e il responsabile si introducono nella piccola abitazione chinando la testa, tanto è bassa l’entrata. Io invece non oso procedere perché mi sembra quasi che, varcando quella soglia, possa indiscretamente violare la grandezza di ciò che sta accadendo dentro di essa. Inaspettatamente poco dopo mi vedo invitata ad entrare e, non appena all’interno, mi trovo davanti al malato che giace su una stuoia stesa sul terreno, avvolto soltanto da una coperta logora.

… ci avviamo alla volta del secondo malato. Mentre avanzo dietro la fila, penso tra me che forse il prossimo sarà un alloggio migliore o al più, povero come il primo… e, cosa si vede? un’altra capanna, stessa costruzione di fango e con il tetto di foglie e paglia, ma molto più piccola della precedente. Qui tentano di farmi entrare, ma posso avanzare nell’interno solo di due o tre passi tanto è minuscolo l’ambiente.
Dentro il buio è completo: non un piccolo spiraglio né una fessura che permettono almeno alla luce del tramonto di penetrare; ben presto gli occhi bruciano per il fumo forse acceso prima. P. Giovanni non può leggere e faticosamente cerca il viso del malato. La celebrazione del sacramento è molto veloce perché quell’oscurità e quella aria fumosa sono terribili. Andiamo via ma con tristezza nel cuore perché si lascia quel povero uomo nelle tenebre, nella miseria, nella sofferenza; l’unica consolazione è il sapere che gli è stata donata almeno la luce del cuore e un momento di affetto, di preghiera, di tenerezza.

 

Nella casa del catechista.

La catechista ci invita ad entrare nella sua abitazione… ma nel momento dell’uscita, la pioggia è così violenta da impedire qualunque tentativo di cammino e ci costringe a restare seduti quasi al buio. Poi un ultimo imprevisto: comincia a piovere e dal tetto interno della casa le gocce battono sul tavolo, ben presto, presa coscienza della nuova situazione da risolvere, siamo uno accanto all’altro nel tentativo di non essere bagnati anche dentro.
… Tutta la mia singolare esperienza rwandese…, è stata dunque ricchissima e profonda perché mi ha consentito di entrare non solo nel cuore del territorio africano, con tutte le sue bellezze, i suoi inconvenienti e problemi, ma soprattutto nel cuore umano dell’Africa così ricco di semplicità ed accoglienza pur tra tanta povertà materiale”.

La nascita di Gira Ineza è stata dunque la risposta al desiderio di due mondi che sembravano volersi incontrare da lungo tempo.